DA GRANDE VOGLIO FARE L’INGEGNERA.

I femminili professionali e i sogni dei bambini: del perché ingegnera sì e logopedisto no.

Camilla Loperfido

Camilla Loperfido

14/07/2021

Qualche volta incappo nel gravissimo errore di distrazione di ritenere che una questione per me ormai archiviata, lo sia anche per tutti gli altri.

È un effetto dell’ “echo chamber”, quel fenomeno, amplificato dai social network e dall’algoritmo malefico, secondo cui finiamo col relazionarci solo all’interno delle nostre bolle, in “camere dell’eco” appunto, in cui tutti la pensano come noi e, come spiega Annamaria Testa, “la verità dei fatti non esiste perché ciascuno ha selezionato e riceve solo le notizie e i commenti con i quali concorda a priori”.

Quindi, la questione dei femminili professionali e dell’italiano inclusivo, con tanto di asterischi, schwa o doppia forma, l’avevo data non dico per archiviata, ma per accettata dai più, quello sì.

E invece. Invece come talvolta accade sono i miei figli a offrirmi spunti di riflessione.

“Mamma, esistono le ingegnere?”

È bastata questa domanda di Olivia, 5 anni, nel mezzo di una serata tra amici per accendere la discussione.
La stessa di cui parla nel suo libro “Femminili singolari” la linguista Vera Gheno, che analizza le resistenze più comuni a parole come sindaca, ministra, architetta, portiera (quella che para i palloni di calcio, sì).

C’è chi si appella al “benaltrismo”, affermando che i problemi delle donne sono ben altri, chi la definisce “neolingua politically correct”, fomentata da un certo tipo di femministe, chi ritiene che queste parole siano delle storpiature che rovinano l’italiano.

Insomma, la questione non è affatto archiviata, anzi.

Cosa sta succedendo?

Un cambiamento che non è solo linguistico, è sociale.

Ma è nella stessa domanda di Olivia che io trovo la risposta.
Come afferma Vera Gheno “per il principio secondo cui nomina sunt consequentia rerum: i nomi sono conseguenza delle cose, ovvero, se una cosa non esiste non c’è bisogno di nominarla, vale anche l’opposto, se una cosa non ha un nome, non esiste, o perlomeno tende a essere meno visibile agli occhi delle persone.”

Se Olivia ha sentito nominare “ingegnere” ma non “ingegnera”, è portata a dubitare della sua esistenza e quindi della possibilità, un domani, di diventare ingegnera lei stessa.
Ingegnera, architetta, ministra, rettrice, sono parole nuove, ma attenzione, come spiega Gheno, non sono neologismi, “screenshottare” lo è.
Sono nuove perché prima semplicemente non c’era bisogno di usarle. Il femminile di ingegnere esiste già, basta usarlo.

La lingua poi è uno strumento assolutamente democratico. Non esiste un organo superiore che ne determina e impone le sorti (spoiler: no, neanche l’Accademia della Crusca), le parole nuove entrano nel dizionario solo quando sono usate da un numero sufficientemente grande di persone e per un periodo sufficientemente lungo di tempo.

E se a Olivia servirà a pensare che sì, certo, potrà diventare un’ingegnera un giorno, io questa parola e tutti i femminili professionali, anche se “suonano male” (ma poi per chi?) li userò.

Non anche se amo l’italiano, ma proprio perché amo l’italiano. E Olivia, ovviamente.

Poi, diciamolo, screenshottare sì e ingegnera no? Dai, su.

“Mamma, esiste il logopedisto?”

E poi arriva Federico, con la sua di domanda.
Ma il perché ingegnera sì e logopedisto no, ve lo faccio spiegare direttamente dalla professoressa Cecilia Robustelli, linguista dell’Università di Modena e Reggio Emilia: